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Corps du Théâtre / Il Corpo del Teatro: organicité, contemporanéité, interculturalité / organicità, contemporaneità, interculturalità
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Corps du Théâtre / Il Corpo del Teatro: organicité, contemporanéité, interculturalité / organicità, contemporaneità, interculturalità
Livre électronique449 pages6 heures

Corps du Théâtre / Il Corpo del Teatro: organicité, contemporanéité, interculturalité / organicità, contemporaneità, interculturalità

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À propos de ce livre électronique

Die mehrsprachige (franz., ital., engl., dt.) Publikation "Corps du Théâtre / Il Corpo del Teatro", herausgegeben von Ulf Birbaumer, Michael Hüttler und Guido Di Palma, befasst sich mit theateranthropologischen Überlegungen zum Körper - nicht nur des Schauspielers - im und auf dem Theater. Die hier versammelten Aufsätze und Essays anerkannter Theater- und Literaturwissenschafter präsentieren deren Forschungsergebnisse zu den Themenkomplexen "Der enthüllte Körper" (Piergiorgio Giacchè, Gabriele C. Pfeiffer, Janne Risum, Jacques Le Rider), "Körpergedächtnis" (Jean-Marie Pradier, Philippe Ivernel, Cesare Molinari, Claudio Meldolesi, Gerda Baumbach) und "Verkörperung" (Bruna Filippi, Patrice Pavis, Klemens Gruber, Ulf Birbaumer, Dieter Hornig, Guido Di Palma). Die wissenschaftlichen Ansätze der Autoren kreisen, bezugnehmend auf die aktuell wieder vermehrt geführte Debatte zu Theorie und Praxis des menschlichen Körpers auf der Bühne, um die Stichwörter Organizität, Gleichzeitigkeit und Interkulturalität am Theater.
LangueFrançais
Date de sortie19 juil. 2011
ISBN9783990120019
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    Aperçu du livre

    Corps du Théâtre / Il Corpo del Teatro - Hollitzer Wissenschaftsverlag

    intelligenze.

    I.

    LE CORPS RÉVÉLÉ

    IL CORPO RIVELATO

    IL CORPO DIMENTICATO : CARMELO BENE

    PIERGIORGIO GIACCHÉ

    PRIMA IMMAGINE

    Una prima immagine di Carmelo Bene (1937–2002), anzi ‘l’ultima’. Carmelo Bene dopo ogni spettacolo ritorna in sé, va verso il proscenio a ringraziare il pubblico, « ma per vezzo o per scaramanzia si sgambetta da solo in un falso inchino, e devia lo sguardo in alto e fino all’indietro, come per schermirsi ».¹ Si era dimenticato di avere un corpo, ed è per questo che soltanto alla fine dello spettacolo, quel corpo recuperato fa letteralmente « scandalo »² a se stesso: su quel suo corpo infatti Carmelo Bene inciampa fingendosi sorpreso di ritrovarselo ancora addosso, dopo averlo abbandonato durante l’istante eterno³ del suo spettacolo.

    Adesso, quel corpo gli serve, ma appena per ricevere applausi e lanciar baci. Adesso, sembra dire frastornato, eccomi a voi con l’incidente ritrovato del mio corpo. Non ha né voglia né fretta di recuperarlo e mostrarlo, e forse lo eviterebbe se solo avesse trovato un altro modo di dimostrare la sua precedente ‘assenza’. Ovvero anche se solo potesse sottrarsi ad ogni ‘dimostrazione’. Un giorno, forse, ci riuscirà.

    Il primo principio dell’arte teatrale è la sottrazione. E questo vale sia come legge primaria della composizione drammaturgica – da sempre basata su ciò che è mancante piuttosto che su quanto è presente o ‘presentato’ –, sia come scelta terminale del linguaggio scenico contemporaneo, tutto orientato verso la progressiva eliminazione del superfluo, teso alla ricerca dell’essenzialità o della ‘povertà’, non tanto per un’opzione stilistica ma per l’obbligo che ha di rispettare e sfruttare la ‘differenza’ del teatro – che oggi è la sua ‘definizione’.

    In Carmelo Bene e nel suo teatro, l’operazione del ‘togliere dalla scena’ si esaspera e si completa – come si sa, e come lui stesso dice⁶ – con il ‘togliersi di scena’ dell’attore. La sottrazione di sé in quanto attore passa, a scorrere il teatro di Bene, per molti successivi e sempre più radicali tentativi: si comincia con la negazione dell’attore-interprete per arrivare alla ‘scena dell’assenza’; si comincia con una recitazione che smentisce ogni ruolo, fino all’invenzione di un ruolo che si colloca fuori dalla rappresentazione.

    Tutto ciò sembrerebbe un provocatorio quanto estremo punto d’arrivo, ma invece è il tardivo benedetto riconoscimento dell’autentico punto di partenza dell’arte scenica. La sottrazione deve riguardare l’attore e il suo corpo, altrimenti sarebbe solo un ‘trucco’ poetico e non la regola etica (cioè comportamentale) di chi il teatro produce e incarna. In fondo ogni recitazione credibile si ottiene attraverso una progressiva eliminazione ‘fisica’ di sé; e perfino l’agognata e straordinaria ‘presenza scenica’ – a guardar Bene, ma anche ogni altro attore – è più spesso ricerca dell’evanescenza che accentuazione della corporeità dell’attore.

    Più consapevole e determinato di tutti gli altri, Carmelo Bene esibisce un combattimento vano ma instancabile dell’attore contro se stesso, giacché sottrarsi è un’operazione fisica e perfino faticosa, visto che si deve compiere con il corpo ai danni dello stesso corpo. Uno spreco energetico che altri artisti e registi pongono fra i princìpi segreti e contraddittori dell’arte dell’attore⁷ e che invece Carmelo Bene intende apertamente e continuamente ‘mettere in mostra’, proprio per evitare ogni ‘messa in scena’, e soprattutto la messa in scena del proprio corpo e di sé.

    Così, nel suo teatro, il ‘togliersi di scena’ dell’attore prende il posto e il valore dell’entrata in scena del personaggio: diventa l’argomento vero del dramma e assorbe in sé ogni azione e parola drammatica, che risultano come mangiate dall’interno: svuotate e gettate, scansate e sdossate dall’unico eroe tragi-comico che per davvero abita lo spazio e consuma il tempo della scena, cioè dall’Attore in perenne lotta per la liberazione di sé. E da sé.

    « O ci si toglie di scena o si va di corpo », si potrebbe far dire prosaicamente a Carmelo Bene, memori della sua sospensione del tragico.⁸ L’attore, ovvero colui che più di ogni altro il corpo se lo porta sempre addosso, è costretto a sbatterci sempre contro. Il gioco contro l’impiccio della sua ingombrante fisicità e perfino contro il fastidio della sua organica vitalità diventerà allora, per Bene, una costante della sua drammaturgia: quando, malgrado ogni sforzo o abbandono, riemergerà il corpo, sarà sempre per impedire o ridicolizzare un gesto dell’anima e sospendere così ‘il tragico’. Tragico che però viene appunto ‘sospeso’ e non negato: anzi, la situazione e la persona risultano avvilite fino all’infimo grado e senso, diventando sempre più inquietanti e disperate. Così nella vita – sembra dire Carmelo – la pesante e volgare invadenza del corpo funziona come un contrappeso che ci impedisce il sublime (e questa è la vera ‘tragedia umana’). Così a teatro, l’intervento di un accidente corporale mette in primo piano la vera tragedia dell’attore, che è appunto senza scampo e senza gloria ed in questo è ‘tragedia del comico’, nel senso che appartiene al mestiere e al destino di chi va in scena: è il corpo, sempre inadeguato e spesso dissestato, che impegna l’attore a inventare mille modi per sbarazzarsi di lui. Non è un caso se, quando è ‘di scena’, il corpo di Bene appare sempre ferito, bendato, appesantito da corazze o affogato nei costumi. Della lotta contro la presenza e perfino contro la memoria del suo corpo, Bene se ne serve come di un contrappunto comico che svilisce e insieme accentua ogni tragica vicenda del personaggio, rinviandola alla penosa impotenza dell’attore.

    Tutta una ‘prima fase’ del teatro di Bene si può rivedere e rileggere nel segno di una ‘tragedia ridicolosa’ e nel modo di una danza affannosa contro l’impedimento del corpo; anzi, dei corpi e degli oggetti e delle parole e degli avvenimenti – tutti ‘fisici’ e dunque tutti da sottrarre. Sbarazzarsi è l’imperativo che sfocia in una recitazione dell’ imbarazzo ininterrotto, da parte di un attore che vuole sparire di scena contro tutte le apparenze o le evidenze che in scena ‘prendono corpo’ contro di lui. Il suo manifesto teatrale « contro la rappresentazione »⁹ è l’esito (piuttosto che la causa) di questa scelta o condizione poetico-esistenziale. L’attore – per Bene e in Bene – nasce e cresce come ‘non-attore’: si oppone all’io-interprete e ad ogni altro ‘io’.¹⁰ L’instancabile e comunque insopprimibile messa in scena del suo malessere serve a mettere in mostra il suo non-essere, creando un vortice d’assenza che si mangia o che rigetta lontano ogni elemento della rappresentazione (la storia e la scena, i personaggi e le azioni…).

    Vocato all’eliminazione progressiva di ogni elemento e ingrediente del teatro, il non-attore è di per sé il Teatro come divenire: il Teatro come un non-luogo che incessantemente si svuota, il Teatro come un fuori-tempo in cui le visioni si producono come continue sparizioni, il Teatro come anti-corpo che progressivamente si alleggerisce e prende il volo.

    L’accentuazione o l’assolutizzazione della ‘sparizione’ come evento e verbo del teatro è soltanto in apparenza un’assurdità. La ricerca e la dichiarazione della propria ‘assenza’ – più volte ribadita e coltivata da Bene – è per troppo tempo sembrata ai critici e agli spettatori un paradosso o un nonsense. In realtà si tratta di una scelta estrema ma anche dell’unica operazione possibile, quando finalmente si comprenda (e qualora per una volta si assecondi) il punto di vista di chi sta in scena, e cioè dell’Attore nel senso di chi ‘fa’ o meglio di chi ‘è’ per davvero il Teatro.

    Dall’altra è facile in effetti verificare come tutte le teorie dell’energia come ‘presenza’ e tutte le pratiche che tendono ad esaltare l’apparizione¹¹ siano di provenienza (e di obbedienza) registica, dunque consistano in ragionamenti o approcci ‘da spettatore’. E’ lo spettatore colui che vede e vuole l’apparizione, mentre l’attore durante tutta la sua vita scenica è in realtà impegnato a cancellare, togliere, consumare – anzi, a cancellarsi, togliersi, consumarsi.

    Può sembrare semplicistico e banale ma, a chi abita per davvero la scena, non resta in fondo altra ‘azione’ che andarsene di lì. A partire dall’essere in scena, sparire è l’unica trasformazione possibile, ma è al contempo anche l’unica impossibile o incompatibile con il ruolo dell’attore. Per questo si può dire (e davanti a Carmelo Bene si deve credere) che l’arte dell’attore consiste nell’ingegnarsi a trovare dis/soluzioni al suo stesso ruolo: nel suo teatro, una serie di nascondimenti e sfinimenti, di evanescenze e smarrimenti sembreranno anticipare continuamente il finale (e, tra parentesi, tenderanno alla fine dell’arte o alimenteranno un’arte della fine – per citare Maurizio Grande¹²).

    L’attore Bene accentuerà così la parte decadente del gesto, l’eco del suono, la traccia o l’ombra del corpo: inseguirà un ritmo tutto in levare, eseguirà un gioco d’infingimenti che corrodono ogni finzione e di parodie che smentiscono ogni invenzione. Anche alla finzione e all’invenzione va cioè tolto il ‘corpo’, va eliminata ogni realistica concretezza, va assottigliato al massimo ogni credibile spessore.

    Infine questo ‘stile’ non è che il farsi carico di una tensione verso il ‘non essere’, che è il desiderio per così dire naturale di ogni personaggio. Quale Amleto non vorrebbe sfuggire alla sua tragedia o almeno alle sue infinite repliche, dimettendosi dal destino che lo perseguita e magari – come suggerisce Laforgue – passare senz’altro al ruolo di attor comico ed andare in tournée con la compagnia che ha ospitato ad Elsinore? Dall’altra allora, l’attore più sensibile e più immedesimato non sarà più quello che intende ‘dar corpo’ al personaggio, ma colui che al contrario ne riscatta l’anima diventando la sua ombra ironica e smemorata – cosicché ad ogni replica l’attore, in quanto spettro teatrale di Amleto, possa uscire insieme a lui sia dalla storia che dalla scena. Ci sarà così ogni volta Un Amleto di meno,¹³ e quindi anche un Carmelo di meno o – come lui dice – una di meno delle sue tante vite.

    C’è una complicata drammaturgia dell’assenza¹⁴ nel teatro di Bene, ma c’è soprattutto e prima di tutto una pratica attoriale dell’assenza: se il fine della prima è cancellare l’azione, quello della seconda è svuotare il corpo. Se il risultato della prima è arrivare all’ atto involontario,¹⁵ quello della seconda è arrivare ad appendere ogni ineliminabile residuo di fisicità al fantasma della sua voce.

    La voce è l’ anima che raddoppia il corpo, ma anche il trucco del suo svanire: per ogni attore la voce è il luogo dove si concentra, ma anche dove evapora, la corporeità. In Bene, arrivata ad un’estensione e dominazione assoluta, la voce è divenuta phonè, come per segnalare il passaggio da strumento a concetto ovvero come per guadagnarsi una paradossale ma effettiva scorporazione.

    Prima però di diventare una elaborata invenzione, la phonè è per Bene un’irrinunciabile scoperta.¹⁶ Una scoperta che, ad esempio, gli ha reso prima inutili e poi insopportabili gli altri attori: il suo protagonismo non c’entra, ché era ed è sempre rimasto assoluto, ma se ‘prima’ appariva in forza di un accerchiato e minaccioso isolamento, ‘poi’ prende la forma e il peso di una monumentale e perfino funebre solitudine.

    Una seconda fase della sua attività lo vede infatti magari attorniato da un’intera orchestra, ma la sua ‘compagnia’ sarà al massimo composta di una sola partner femminile – quando non gli sarà possibile ridurla a statua o a manichino. E questa scelta non riguarderà soltanto i sempre più frequenti ‘concerti d’attore’, ma si andrà ripetendo anche nelle riedizioni o nelle riscritture sceniche di opere già rappresentate con un cast numeroso e perfino generoso: basta ad esempio scorrere la serie degli Amleti¹⁷ per constatare come all’improvviso si passi da una folla di attori in continuo movimento alle poche statue semoventi in Hommelette for Hamlet,¹⁸ prima di finire con una Hamlet-suite in cui la compagnia di una sola attrice¹⁹ ha in fondo lo scopo di esaltare la solitudine scenica di Carmelo Bene. Oppure, se si vede e se si crede, di accentuare il deserto della sua ‘macchina attoriale’.

    SECONDA IMMAGINE

    Una seconda immagine del corpo di Carmelo Bene: quasi sempre assiso e però scomodamente vagante fra un letto e un leggìo, fra una postazione e l’altra della sua possente strumentazione fonica. Il corpo si muove e si raccoglie in ritardo dove lo chiama la voce; il volto è mosso soltanto dai tagli di luce oppure è semovente da un microfono all’altro, a seconda del testo da dire, anzi del testo da cui vuol essere detto. Incastrato e indaffarato nel cerchio breve di una muraglia di casse d’amplificazione, il corpo di Bene si fa protesi di quella ‘macchina’ che s’incarica – talvolta – di portarlo fuori dalla vista e – sempre – di farlo sparire dentro la sua stessa voce. Ma non si deve confondere il macchinario che lo circonda con la macchina che è diventato egli stesso: o meglio le due ‘cose’ si devono confondere e fondere, giacché l’impianto tecnologico non è che il proseguimento e la verifica della sua trasformazione in ‘macchina attoriale’. Il corpo di Bene ora non ha più bisogno di lasciare la scena, ma al contrario si può permettere di lasciarsi precipitare in essa come se fosse un resto inorganico dotato di una vita automatica.²⁰

    Annullare il corpo passa da obiettivo a imperativo: anzi, più il fallimento dell’obiettivo è scontato, più l’imperativo diventa per Bene categorico. La danza gestuale e mimica delle cancellazioni e delle sparizioni continuerà, ma farà soltanto da minuto contrappunto al possente suono che avvolge e sostituisce ogni corporeità dell’attore; e la sostituisce proprio impegnandola e svuotandola come massa e come strumento della risonanza.

    Tecnicamente, la voce di Bene lo aggredisce da dietro la maschera e dunque ruba all’attore il suo volto.²¹ Tecnologicamente, l’esagerata amplificazione fonica farà il resto, producendo attorno e contro il suo corpo la nuvola sonora che lo sospende e lo rende di fatto invisibile. Di più, il trucco ricorrente e sempre esibito del play-back, lungi dal voler essere una provocazione per lo spettatore-cliente dello ‘spettacolo vivente’, ha invece il compito di rendere giustizia ed evidenza al sacrificio del corpo dell’attore, dimostrando senz’altro pleonastica la sua presenza.

    « Non esisto, dunque sono »,²² diceva uno dei primi manifesti del non-attore Bene. Arrivato poi al grado successivo della sua sparizione nella Voce, forse ammetterà di esistere (e difatti ingrandisce la sua esposizione e rende imponente e statuaria la sua presenza) ma certo in scena ‘si dimentica’ di essere.

    Se l’ assenza è stata la chiave paradossale della sua precedente drammaturgia, l’ oblìo diventa allora il traguardo ‘impossibile’ di un attore-autore rimasto solo con la poesia del testo.

    Paradossalmente infatti, l’eliminazione e la liquidazione di tutto quello che ingombra la scena (a partire da sé), sembra aver lasciato spazio soltanto al testo: al suo suono più « basso »²³ e al suo senso più alto, dentro ai quali si ricovera un attore più ‘in ascolto’ che ‘in azione’, attraversato da un ‘dire’ e da un ‘agire’ che non gli appartengono e che anzi lo spossessano.

    Se prima il non-attore Bene si liberava di sé non indossando il ruolo ma al contrario ‘sdossando’ continuamente la parte, adesso prosegue la sua cancellazione non-dicendo le battute del testo ma ascoltandole come in sogno e quindi, nel sonno scenico, ripetendole dimentico. Ma va da sé che il ‘prima’ e l’ ‘adesso’ sono distinzioni logiche e non cronologiche, e conviene ancora una volta ribadire che le differenze fra le varie ‘fasi’ del teatro di Bene non sono mai temporali distanze: se nel percorso della sua arte via via si accendono o si accentuano diversi modi del suo eccedere, resta sorprendentemente unica la linea di ricerca e di fuga di un artefice-operatore che non farà che riprendere e ripetere gli elementi costanti e compresenti in tutta la lunga teoria delle sue opere.

    Dimenticare il proprio corpo è il dovere e il sapere di ogni performer: è una eccezionale ma regolare operazione per chiunque arrivi a compiere azioni straordinarie. Significa in primo luogo ‘essere nel flusso’ ovvero – per dirla con Victor Turner (1920–1983) – realizzare quella fusione tra azione e coscienza in cui svanisce il controllo razionale esterno, ed è il corpo che pensa e agisce nello stesso tempo²⁴: un corpo appunto dimenticato dalla mente e finalmente in grado di unire e confondere felicemente nel suo atto performativo il ‘fare’ e il ‘sapere’. L’atto performativo raggiunge vertici eccezionali in quanto è sapiente in sé e non sa nulla di sé. L’atto performativo dà spettacolo di sé, ma soltanto perché è in sé stesso spettacolo: si può dire che il performer è abbagliato e sorpreso dal suo stesso atto, mentre è realizzato, assorbito, dimenticato dentro l’atto stesso.

    Ma quale atto? In Bene e nel suo teatro l’azione teatrale o la battuta drammatica si sottomette o si sacrifica al flusso stesso. Diventa trascurabile cosa fa o dice l’attore, mentre si vuole evidenziare il suo ‘essere nel flusso’. Del resto, « il flusso è autotelico » – ci avverte Turner. Ebbene, nel teatro di Bene, il flusso fine a se stesso diventa palesemente il fine (e il contenuto) della performance. In altri termini, in Bene e per Bene, l’azione performativa autenticamente inseguita ed esibita non è l’azione drammatica ma l’atto tragico della dimenticanza di sé. Stare fuori di sé fa testo per l’operatore, mentre tutto il resto dell’opera è appena contesto dell’attore: « il resto è teatro », ripete spesso Carmelo Bene, con ciò volendo significare che il teatro è appena il residuo di una performance che si accende e si consuma in se stessa.

    A ripercorrere la vita (e non la storia) del suo teatro, si può allora dire che uscire di scena e uscire da sé diventano le due tappe progressive (ma sovrapposte) di una ricerca di solitaria verticalità che si oppone alla normale orizzontalità del confronto – o peggio della ‘comunicazione’ – fra scena e platea: la rivoluzione copernicana che oppone al teatro della rappresentazione il teatro dell’irrappresentabile è tutta qui. L’attore non produce visioni per gli altri ma diventa visionario egli stesso e cerca di innalzarsi al di fuori dello sguardo e dalla letterale comprensione altrui, forzando l’unica via di fuga che è consentita a chi è condannato ad abitare la scena, quella verso l’alto. Quella del volo e della visione, e quindi – sempre più esplicitamente – quella dell’oralità e della musica, della verticalità del verso e della profondità del suono.

    In scena, il suo corpo d’attore, prima impedito e menomato e poi negato e trasceso dalla Voce, è continuamente e vanamente irrequieto ma sa anche sfuggire al suo peso e abbandonarsi al canto che lo fa svanire. Così si rispetta e si completa il postulato beniano del ‘venir meno’, alternando o combinando le due diverse accentuazioni dell’ impotenza e della dimenticanza: entrambe sempre presenti ed entrambe inevitabili componenti dell’essenza e del destino dell’attore.

    ‘L’impossibilità del fare’ e ‘l’inutilità del credere’ sono da sempre le verità della finzione. L’attore è il sacerdote e la vittima di queste verità: in fondo il senso e lo scopo di ogni sua azione scenica, in eterno combattimento contro l’azione storica, serve a ricordarci quanto ogni azione umana, prima ancora di essere finta, sia vana. Queste verità non vengono affatto dal teatro, anche se non è un caso che lì siano approdate e siano state confinate, magari per renderle innocue. A Carmelo, per esempio e per così dire, sono piovute dal cielo del suo luogo natale, come un’eredità spirituale oppure come una malattia culturale (che differenza c’è?). E’ inutile a questo proposito ricordare le belle pagine che gli ha dedicato Gilles Deleuze (1925–1995) sul « Mezzogiorno come minoranza »,²⁵ per testimoniare il suo debito e soprattutto il suo credito verso la cultura meridionale e mediterranea. Necessario è invece rifarsi a quel « sud del sud dei santi »²⁶ che Bene sceglie come proprio continente e indica come suo orientamento.

    I santi sono i suoi campioni di riferimento o, se si vuole, i performer oggetto di ammirazione e imitazione: la sua Terra d’Otranto gli ha fornito le icone primitive della visione e del volo, ma Nostra Signora dei Turchi e San Giuseppe da Copertino²⁷ sono soltanto le figure di emblemi complessi, soltanto gli scudi dove Bene può incidere il suo ‘motto d’impresa’.

    Inazione e Depensamento sono le parole chiave che spiegano il rapporto fra Carmelo e il suo ‘sud’ e che peraltro fondano il suo teatro. Non è agevole né produttivo in questa sede ricapitolare questo rapporto,²⁸ ovvero il riscatto che l’arte di Bene offre agli stereotipi negativi con cui si bolla da sempre il fannullone e lo spensierato meridionale, o ancora la messa a punto dei fondamenti attoriali che sono (e resteranno) l’inutilità dell’azione (comunque ininterrotta) e l’impossibilità dell’oblìo (comunque inseguito). Quello che va però ricordato e precisato è il movimento e il mutamento che collega e distingue l’attore dal santo.

    La « patrona dei quattrocento martiri » e il « santo-asino che vola » permettono intanto a Bene di sfuggire alla società e alla cultura meridionale riparando appunto nel ‘sud del sud’: dunque non emigrando ma insistendo e sconfinando nel suo oltremare e nel suo oltrecielo, ovvero in un non-luogo e un senza-tempo (un teatro?) dove abitano le alterità del sud – che è come dire le alterità dell’alterità, visto che il Mezzogiorno d’Italia è già di per sé il luogo della differenza e della negazione dell’identità. Quindi Nostra Signora e San Giuseppe da Copertino diventano sì i suoi ‘campioni’ di riferimento e di imitazione, ma senza dimenticare che il teatro è un tutt’altro genere di performance: il teatro non è religione ma semmai la sfida nel terreno anzi nel cielo della sacralità, cioè ancora una volta lungo l’asse di quella verticalità dove i santi sanno davvero ascendere e da dove magari sanno anche fuggire.

    Gli attori no. L’attore in realtà li ‘mima’ senza imitarli, giacché il suo compito davvero tragico è di attenersi a una verità e a una condizione terrena senza scampo. La vanità e l’inconcludenza dell’atto e il pensiero come memoria ed errore, non si risolvono né si dissolvono mai del tutto. Sono anzi le zavorre contro le quali ci si sforza di prendere ugualmente il volo, di proporre ugualmente la visione. O meglio, di inventare o di diventare la macchina di un volo artificioso e di una finta visione.

    In un certo senso il compito dell’attore è per Bene più ambizioso proprio perché tende al credibile senza essere credente: si tratta di produrre in sé e per sé un éschaton senza fede, di proporre una sorta di metafisica senza un al di là. Così le ‘cose estreme’ diventano ‘eccessi’, nel senso di un’escatologia che scende dal cielo della teoria fino alla pratica dell’ ex-cedere, ma non cambia per questo l’obiettivo né si riduce il suo rigore: si tratta sempre dell’uscire dai corpi e dalle forme, del « liberarsi del proprio modo d’agire ed entrare in ciò che non ha modo » – dirà Bene citando un altro santo (Juan de la Cruz, 1542–1591) stavolta più maestro che modello, più vicino all’attorepoeta in cui lui si tramuta.²⁹

    Nella materialità del teatro tutto si traduce in tecnica o in esercizio. La religione e la poesia sono importanti per Bene, ma soprattutto per la sfida e le soluzioni che offrono all’arte performativa. Così si può dire che la ‘macchina attoriale’ rappresenta la mimesi tecnologica della possessione; così l’esercizio che conferma e allena lo spossessamento dell’attore è la lettura.

    C’è allora forse una ‘terza fase’ da sovrapporre alle altre. Dalla mobile e popolata ‘scrittura scenica’, passando per la solitudine amplificata della sua voce, Bene raggiunge l’immobilità della ‘lettura poetica’. Leggere diventa la pratica sacrale attraverso cui si continua a negare la presenza e l’azione; la lettura è un modo per rovesciare al passivo l’agire e il dire dell’attore di prosa. Anzi, l’essere agito e l’essere detto di Carmelo Bene, passando per l’abbandono della lettura, raggiungono lo stato e il senso di due verbi deponenti (che cioè riscattano un significato attivo mantenendo la sostanza e la desinenza del passivo).

    L’attore Bene è così finalmente attore-poeta: il motore immobile di un accadere che lo sovrasta e di un divenire che lo avvolge. Un attore-poeta che rende poetico tutto quello da cui è toccato (ed è detto): non c’è mai stato per Bene un testo ‘drammatico’, ma adesso, con la lettura, non può evitare di distillare comunque e sempre poesia da ogni prosa, né trattenersi dal disporre nel senso verticale del verso anche quelle righe che appaiano distese nella più piatta orizzontalità (« si può leggere anche l’elenco telefonico! », gli si è spesso sentito dire, certo per celia ma non senza ragione).

    Prima di tutto e soprattutto però, la lettura è per Bene l’esercizio spirituale dell’oblìo. La lettura e la rilettura continua non cede mai il posto all’appropriazione del testo, ma conferma un’attenzione e una sottomissione alla lettera, che è la stessa del musico o del cantante o infine del prete. Intanto, fisicamente, il leggìo e dunque la lettera si avvicinano sempre più allo sguardo dell’attore, fino a provocargli una sorta di lucida cecità: il contatto razionale con la sua ansia di significazione dovrà allora cedere il posto al tatto di occhi diventati arti visivi, tramutati in mani (tanto esperte quanto immemori) della visione.

    Con ‘questa’ lettura, la dimenticanza diviene la dimensione avvolgente e totalizzante nella quale il ‘corpo dimenticato dalla mente’ si associa finalmente a una mente liberata dalla memoria.

    Quando Carmelo Bene decide di leggere una partitura di scena – scrive Maurizio Grande, riferendosi soprattutto agli spettacoli a forma di concerto – opta per una dimensione intemporale della memoria che elimina qualsiasi compromesso con l’apparato del ricordo.³⁰

    Nella lettura Carmelo Bene esclude sempre il ricordo, che è sempre pronto a far precipitare l’attore nella più fatua e psicologica immedesimazione. Leggere nell’abbandono è invece consegnarsi all’atto al di là dello spazio e del tempo, in una sorta di memoria arcaica della parola, al riparo dagli obblighi e dai debiti persino con l’autore. L’attore-poeta non chiede più di competere con l’autore-poeta: entrambi sembrano rinascere in quel momento. La lettura è l’atto che li rigenera entrambi da zero. Entrambi « ri-memorati nel non-ricordo »³¹ come antichissimi embrioni.

    E’ questo – per entrambi – un vero ‘atto’ di nascita, una innegabile manifestazione di addirittura doppia presenza, prodotta da una sorgente attoriale che sembra non aver più bisogno di negarsi o di celarsi dietro il suo contrario. Di colpo, la sottrazione e l’assenza, la sparizione e lo sfinimento sono anch’essi annegati nell’oblìo.

    ULTIMA IMMAGINE

    Un ultima immagine del corpo di Carmelo Bene, oppure la prima immagine del suo ‘ultimo’ corpo: in piedi, acceso in volto da una folgorazione di kilowatt che lo arrossa e poi lo sbianca di calore fino a farlo rinascere nella luce. Al termine della sua ultima Lectura Dantis, una sorta di trasfigurazione lo colpisce o lo rapisce mentre risuonano gli ultimi versi del Paradiso.³²

    Versi detti da chi? Scritti da chi? Non importa più a nessuno. Quello che conta è lo smarginamento anzi la liquefazione di ogni materiale e concettuale cornice rappresentativa; era già stata abbandonata la scena e ora si dimentica di sé persino il teatro come edificio.

    La luce e la voce culminano nella stessa eccessiva e terminale assolvenza. Un’apertura totale che sostituisce e liquida per una volta (e per sempre) la drastica ma infine convenzionale e modesta chiusura del sipario. Se però non si chiude più la scena, rischia davvero di sparire il teatro. E per una volta solo il corpo dell’attore è presente, ed è solo presenza: siamo davanti all’esposizione letteralmente sfacciata di un corpo, ritrovato soltanto nell’attimo in cui si incendia. Ma stavolta chi attende la rassicurante dissolvenza rimane deluso.

    Il corpo dell’attore è andato oltre la sua dimenticanza: ora può arrivare al massimo della visibilità e protrarne infinitamente la durata, perché si raffigura o si realizza il massimo della sua consunzione. Agli occhi finalmente accecati del pubblico Carmelo Bene appare come una sagoma bruciata dalla luce e immersa in un eccesso di toni e volumi che hanno già da tempo occupato la scena e saturato la sala.

    Del resto da tempo in teatro – dal tempo di Bene e nel teatro di Bene – non c’era più posto per l’attore né per gli spettatori. C’erano, non importa se seduti in scena o in platea, soltanto i loro rispettivi corpi. Dimentichi.

    BIBLIOGRAFIA

    Attisani, Antonio: Il teatro come differenza. Milano: Feltrinelli, 1978.

    Barba, Eugenio: La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale. Bologna: Il Mulino, 1993.

    Bene, Carmelo; Deleuze, Gilles: Sovrapposizioni. Riccardo III. Un manifesto di meno. Milano: Feltrinelli, 1978.

    Bene, Carmelo: La voce di Narciso. Milano: Il Saggiatore, 1982.

    Bene, Carmelo: ‘L mal de’ fiori. Milano: Bompiani, 2000.

    Biennale di Venezia (a cura di): La ricerca impossibile. Biennale Teatro 89. Venezia: Marsilio ed., 1990.

    Dotto, Giancarlo: Il principe dell’assenza: Carmelo Bene. Firenze: Giusti, 1981.

    Dumoulié, Camille: « Chorà o il coro della voce », in: La ricerca impossibile. Biennale Teatro 89, a cura di Biennale di Venezia. Venezia: Marsilio ed., 1990, pp. 130-132.

    Filippi, Bruna: « L’humilité est conditio prima », in: De l’excès. Une réflexion collective rassemblée par Marie José Monzain, Théâtre Public, 178, 2005, pp. 31-35.

    Giacchè, Piergiorgio: Lo spettatore partecipante. Contributi per un’antropologia del teatro. Milano: Guerini, 1991.

    Giacchè, Piergiorgio: Carmelo Bene. Antropologia di una « macchina attoriale ». Milano: Bompiani, 1997.

    Giacchè, Piergiorgio: « Aux confins du théâtre. Sur la relation entre théâtre et anthropologie », in: Diogène, 186, Avril–Juin 1999, pp. 110-123.

    Grande, Maurizio: « La grandiosità del vano », in: Lorenzaccio, a cura di Carmelo Bene. Roma: Nostra Signora ed., 1986, pp. 85-155.

    Grande, Maurizio: « L’automatico e l’autentico », in: Per Carmelo Bene, a cura di Adriano Apra; Antonio Attisani; Romeo Castellucci. Milano: Linea d’ombra ed., 1995, pp. 17-28.

    Klossowski, Pierre (a cura di): Carmelo Bene. Il teatro senza spettacolo. Venezia: Marsilio ed., 1990.

    Turner, Victor: Dal rito al teatro. Bologna: Il Mulino, 1986 (orig.: From Ritual to Theatre. The Human Seriousness of Play, 1982).

    1 Cf. Piergiorgio Giacchè: Carmelo Bene. Antropologia di una « macchina attoriale ». Milano: Bompiani, 1997, p. 33.

    2 « Scandalo », come si sa, vuol dire « pietra d’inciampo » o anche « tentazione ».

    3 Il tempo a cui Bene ama riferirsi e sul quale ha modellato il suo ‘atto’ teatrale è l’Aiòn e non il Cronos: in esso coincidono il senso dell’istante e il valore dell’eternità. Cf. Camille Dumoulié: « Chorà o il coro della voce », in: La ricerca impossibile. Biennale Teatro 89, a cura di Biennale di Venezia. Venezia: Marsilio ed., 1990, pp. 130-132.

    4 Anche gli spettacoli-concerti o le ‘messe in scena’ più statuarie e invisibili (da Omelette for Hamlet ad Hamlet-suite, per fare gli esempi più noti) non sfuggivano alla regola o al bisogno dei ringraziamenti: soltanto il più recente – una trasposizione in ‘poema’ del dramma di Gabriele D’Annunzio (1863–1938) La figlia di Iorio (1904) (Gabriele D’Annunzio – Concerto d’autore, Roma, Teatro dell’Angelo, 26 novembre – 1 dicembre 1999) – non prevedeva più il ritorno dell’attore in scena a ringraziare e proibiva al pubblico l’applauso. Carmelo Bene c’è dunque riuscito.

    5 Che la ‘differenza’ del teatro dagli altri linguaggi e mezzi spettacolari attuali coincida con la sua ‘definizione’ è ormai un luogo comune; per approfondire o ridiscutere il concetto tuttavia, si rinvia il lettore agli studi di Antonio Attisani: Il teatro come differenza. Milano: Feltrinelli, 1978. – Piergiorgio Giacchè: Lo spettatore partecipante.

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